venerdì 9 maggio 2014

Fact checking sulla libertà di stampa e relativi obiettivi fondanti: << sono i giornali che riflettono la società o essi la "conformano" e ne inducono la struttura? >>



Stampa libera come mezzo per diffondere informazioni e permettere all'eventuale lettore di relazionarsi in modo autonomo con la realtà socio-politico-economica.
Era forse questo l'intento di quei pensatori liberali del XVIII-XIX secolo che individuavano nella libertà di stampa una parte integrante e fondamentale dei diritti individuali?
Normalmente ci si immagina che fosse questo l'obiettivo, e certamente non sarà l'intento del mio articolo quello di demolire tale tesi. Lo scopo ultimo del testo sarà invece quello di argomentare con fatti e citazioni l'ipotesi sempre più incalzante negli ultimi tempi secondo cui il risultato raggiunto non è quello ipotizzato dai precursori e primi idealizzatori del diritto di libera diffusione delle informazioni; si andrà inoltre ad approfondire l'eventuale esistenza di un mondo dell'informazione ideale, quello immaginato dai già citati pensatori liberari del '7-'800.

Il primo mito che andrebbe rivisto in un discorso di questo tipo è quello secondo cui nei luoghi in cui vige un regime democratico di libertà d'informazione le persone siano più informate rispetto alle aree in cui vi sia la censura.
Come si sostengono in tanti (uno dei quali è l'autore di  questo articolo -che però parla di altro- da cui ho preso grande spunto per scrivere) tale tesi risulta falsa o , almeno, non completamente veritiera, esattamente come quella Smithiana (di Adam Smith) della "Mano invisibile del Mercato", secondo cui << se gli operatori del mercato sono liberi di agire secondo il proprio tornaconto, la situazione risultante è quella del benessere diffuso >>;
allo stesso modo, se si "trasla" tale teoria all'interno del mondo dell'informazione, si ottiene la falsità dell "Mano invisibile della Stampa", secondo cui << se ogni giornalista viene lasciato libero di parlare si ottiene una situazione finale in cui tutti dicono la verità e tutti sono informati >>.
Il punto è però che, mentre la falsità della legge economica è visibile solo all'occhio dell'esperto (le mosse degli operatori fanno l'economia; il fatto che la si faccia bene o male è un altro discorso), quella della seconda è apprezzabile da chiunque (le informazioni non sono necessariamente vere, sono semplicemente notizie).
Vi è infatti una situazione reale (non ipotetica o ideale) in cui le notizie sono solo interpretazioni personali del giornalista, per il quale la visione della verità può anche essere influenzata dall'imposizione di determinati standard giornalistici.
La stampa non ha quindi il compito di fornire la verità, ma quello di vendere notizie.




Se, riferendosi alla stampa, si incappa nello stesso problema dei liberisti hayekiani (seguaci di Friedrich von Hayek) che parlano di economia, è facile arrivare alla conclusione per cui gli stessi problemi causati in economia dal libero mercato si ripresentino negli organi di informazione sotto sembianze diverse.
Da qualche tempo ho personalmente elaborato una teoria abbastanza scontata e semplice ma dalle applicazioni non banali: si tratta di una constatazione secondi cui i giornali sono, esattamente come la banche di credito, degli organi endogeni del sistema.
Cioè, così come le banche che erogano credito a imprese e famiglie seguono l'andamento della realtà economica (il "credit crunch" attuale ne è una dimostrazione), i giornali fanno in modo di accompagnare in modo "ciclico" (così come le banche che non possono creare monea per far ripartire l'economia) quello che è il pensiero della massa, non fornendo verità (che non attrarrebbero audience) ma facendo in modo di attrarre lettori o ascoltatori somministrando informazioni talvolta false ma scritte in modo accattivante, << in modo da poter essere lette da un lattaio dell'Ohio >>, diceva Web Miller.
Così la notizia non diventa altro che l'estensione del pensiero del lettore, che ricerca solo quello che vuole leggere; cade così la struttura del pensiero dei liberali '7-'800eschi da cui si è partiti per scrivere l'articolo, perchè è vero che ognuno deve essere libero di informarsi nel modo che crede essere più opportuno per sè, ma è anche vero che così facendo si sviluppa un mondo dell'informazione distorto e polarizzato, che non serve per informare il cittadino, ma per rafforzare le sue convinzioni.
Per esempio, sui giornali italiani si vedono spesso specificate le nazionalità di ladri e altri piccoli delinquenti stranieri, in modo da compiacere ed aumentare i sentimenti xenofobi di ambienti di "destra" (la destra è altro); oppure sui giornali "de sinistra" (la sinistra è altro) si leggono spesso notizie di giornalisti favorevoli al liberismo economico, che scrivono per soddisfare la fame di internazionalismo dei lettori, ignari del fatto che la libera circolazione dei capitali non ha nulla a che fare con il cosmopolitismo delle persone (<< in politica fare i morali è da ingenui >>).
Inoltre se anche fosse accertata l'esistenza della "Mano invisibile della Stampa", essa avrebbe la sola capacità di portare a galla la "migliore notizia", non i migliori fatti, che resterebbero quindi sommersi nell'oblio del dimenticatoio.
Anche qui, però, sorge un problema granitico e apparentemente insormontabile: qual è la "migliore" notizia possibile? Se la stampa si marginalizzasse alla sola descrizione della verità a cosa servirebbero tanti giornali? Dal momento che il fatto è uno ne basterebbe uno, di giornale; così facendo, però, verrebbe meno la libertà di stampa.


Per risolvere la questione bisogna introdurre nel discorso l'eventualità, già annunciata a inizio lavoro, dell'esistenza di un mondo dell'informazione ideale: parafrasando il signor Luciano Barra Caracciolo (giurista, costituzionalista e predente della V sezione del Consiglio di Stato) << Le istituzioni riflettono la società o esse "conformano" la società e ne inducono la struttura? In Democrazia, la risposta dovrebbe essere la prima. Ma c'è sempre il rischio della seconda [...] >>.

"Traslando" questa citazione nell'ambito giornalistico, sostituendo cioè la parola "istituzioni" con la parola "giornali", si ottengono due possibili opzioni: la prima è l'ipotesi ideale e auspicabile, mentre la seconda è quella marcia dell'attuale sistema dell'Informazione.Ad una prima lettura della mia "traslazione" delle parole di Caracciolo può sembrare che la soluzione auspicabile diverga rispetto a quella che può essere estrapolata dal discorso fatto da me in precedenza, per le due ipotesi possono essere conciliate: la parafrasi della citazione vuole che, nello Stato democratico di Diritto, i giornali si adattino alla forma del pensiero "comune" (della maggioranza), mentre, parecchie righe più su, io scrissi che uno dei maggiori problemi degli attuali organi di stampa è quello di dare ai lettori ciò che vogliono, senza portare critiche al pensiero che lo stesso Caracciolo definirebbe "POP" (della maggioranza); la conciliazione la si ha nel momento in cui si rompe il meccanismo "ciclico" dei giornali che cercano di adattarsi al pensiero "mainstream" (della maggioranza) e si innesca invece uno "shock anticiclico" che parte dai cittadini (una volta che si sono resi conto di cosa sia un'Informazione competente e imparziale) e che forza il mondo dell'Informazione ad adattarsi al nuovo modello di società critica e capace di una rielaborazione personale delle nozioni apprese dalla lettura o visione di un giornale o telegiornale.

Per concludere, è ovvio che l'obiettivo di chi per primo desiderava una stampa libera non è stato raggiunto o, almeno, lo è stato in parte.
Non per questo, però, bisogna negare l'assoluta necessità di una libera Informazione, che dovrebbe, comunque, essere accompagnata anche da una comprensione critica da parte del lettore.
Il metodo cinese o quello applicato durante il fascismo di censura e limitazione del percorso dell'Informazione è assolutamente deprecabile e asimmetrico rispetto ai valori sanciti più volte da numerose Costituzione nazionali e Trattati sovranazionali che incarnano lo spirito che sta alla base del vivere comune e del benessere del singolo inserito in una collettività.

sabato 4 gennaio 2014

Sulla crescita "scaglionata" delle regioni italiane


È opinione corrente, fra gli storici, che il divario fra il Nord e il Sud affondi le sue radici in differenze di sviluppo economico, politico e culturale molto remote.
Già dall'epoca tardo-medievale sarebbe evidente l'esistenza di "due Italie", sebbene non vi siano prove dirette per sostenere l'esistenza di tale divario, tranne lo studio dell'immobilizzazione della ricchezza (chiese, palazzi, ville ecc...), che suggerisce che nel Centro-Nord vi fosse una situazione economica migliore rispetto a quella del Sud.

Per contro, però, prendendo in considerazione i vari dati, si può dire che all'inizio del XIV secolo, nel Centro-Nord vi erano 96 centri urbani con più di 5.000 abitanti e il tasso di urbanizzazione era pari al 21%, mentre nel Sud-Isole i centri urbani erano 97 e il tasso di urbanizzazione del 19%.
Nell 1500 il tasso di urbanizzazione era del 21% in entrambe le due aree del Paese, ma da questa data in poi non è più possibile fare un confronto dell'urbanizzazione fra il Nord e il Sud; quello che si può dire con certezza è che l'aumento del numero e della popolazione dei centri urbani nel Meridione fa sì che nel 1861 l'urbanizzazione del Mezzogiorno risulti più che doppia rispetto a quella del Centro-Nord, che era pari al 16% (e quindi inferiore a quella del 1300 e del 1500).

Fra il 1800 e il 1861, l'urbanizzazione, però, diminuì in modo omogeneo in tutta la penisola: nel Centro-Nord passò dal 17,5% al 16,2%, mentre nel Regno di Napoli passò negli stessi anni dal 37,2% al 35,7%.
E' possibile vedere questa flessione anche attraverso lo studio dei salari, sia a livello di occupazione nell'industria che nell'agricoltura; come si vede infatti vi è una caduta di circa il 40% del salario nel periodo compreso tra il 1700 e il 1861 e una sostanziale stagnazione del valore dei redditi tra il 1800 e l'Unità d'Italia, anno in cui, come si può notare, non vi sono differenze di grande entità tra la condizione salariale al Nord e quella al Sud.


 




Per completare il quadro economico della penisola è possibile evidenziare l'andamento delle differenze di reddito nei vari settori produttivi:

- Per quel che riguarda l'agricoltura, sappiamo che il prodotto agricolo pro capite era, nel 1891, superiore nel Sud del 10% rispetto al del Nord, ed è ragionevole pensare che anche nel 1861 fosse superiore, almeno altrettanto (se non di più).
- Quanto all'industria, le recenti stime elaborate da Fenoaltea (2001; 2003), hanno ridimensionato la distanza fra Nord e Mezzogiorno; la stima per il 1871 mostra infatti una superiorità del Nord di circa il 15% in termini pro capite.
- Nel settore dei servizi, nel 1891, anno a cui risalgono i primi dati, il primato va al Nord, il cui reddito in termini pro capite era superiore del 10% rispetto a quello del Sud.
Supponendo che nel 1861 il vantaggio del Nord nei servizi fosse solo del 5 per cento, che in agricoltura il divario fosse rimasto costante e in favore del Sud fino al 1891 e che nell'industria fosse più modesto rispetto a quello riscontrato nel 1871, è possibile dire che non esisteva, all'epoca dell'Unità d'Italia, una reale differenza Nord-Sud in termini di prodotto pro capite.
Il divario economico fra le due aree del paese sembra invece essere un fenomeno
che ha preso piede successivamente; esso cominciò a manifestarsi dalla fine degli anni ’70 e nel corso degli anni ’80 del 1800.
Per i vent’anni successivi all’Unità, infatti, l’entità del divario tra Nord e Sud rimase trascurabile ed è molto probabile che non superasse i 5 punti percentuali, mentre nel 1891, la differenza tra il Pil pro capite meridionale e quella del resto del Paese era già del 7% (livello ancora piuttosto basso, sebbene mostri il progressivo allargarsi della forbice che distingue le due principali aree della penisola).

Il grafico seguente, in cui sono riportate le serie del prodotto pro capite in Italia, mostra che proprio quello tra gli anni '70 e '80 fu il periodo in cui all’epoca di declino e stagnazione che aveva caratterizzato il 1700 faceva seguito un’inversione di tendenza.





Questa analogia del livello di prodotto pro capite nelle due parti del paese può essere spiegata a partire da una semplice constatazione: quando il prodotto pro capite declina fino ad approssimarsi al livello della sussistenza, come era accaduto nell’Italia del Settecento e del primo Ottocento, non c'è spazio per differenze fra aree regionali.
Mentre la crescita crea differenze, il declino, almeno quando si è a un livello già basso di reddito, crea l’uguaglianza nella povertà.

I dati annui, che partono dal 1891, consentono di ricostruire i divari fra Nord e Mezzogiorno e anche quelli regionali in maniera più accurata e di mostrare come la crescita moderna dell’Italia si tradusse invece in forti differenze fra una regione e l’altra, benchè gli squilibri regionali italiani fossero, seppur elevati, in misura non dissimile da quella degli altri paesi europei.

Questi divari che, come già detto, erano trascurabili nel periodo immediatamente successivo all'Unità d'Italia, cominciano a prendere forma e continuano a farlo per quasi un secolo, riducendosi solo nei due decenni dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Nel 1891, infatti, gli squilibri regionali risultano ancora modesti.
Se in Liguria e Lombardia i livelli di reddito pro capite sono significativamente superiori alla media nazionale, anche nel Mezzogiorno vi sono regioni relativamente prospere, come la Campania, mentre una situazione di ritardo è registrabile in Abruzzo e Calabria; nel Nord la regione più arretrata è il Veneto.





La visione globale dei livelli di reddito pro capite delle varie regioni non rende ancora possibile una divisione netta tra Nord e Sud.
Con l'avvento del nuovo secolo, però, si vanno delineando le differenze: mentre nel cosiddetto "trinagolo industriale" il PIL pro capite aumenta, nelle regioni del Sud esso comincia a declinare, fino a portarle, già a partire dal 1921, alla condizione di area in ritardo di sviluppo (dal 1891 alla vigilia della Grande Guerra il Pil pro capite meridionale passa dal 93% all’80% circa di quello del resto del Paese).





Mentre nel ventennio fascista (1920-40) la crescita media annua del Nord sfiora il 2%,  quella del Mezzogiorno è di circa mezzo punto all’anno.
Le differenze di crescita producono un ulteriore allargarsi del divario Nord-Sud e tra il 1931 e il 1951 le differenze interne al Mezzogiorno tendono a divenire più sfumate: le regioni in passato più ricche arretrano sensibilmente e le regioni meridionali divengono più simili.
Nel 1951 la distinzione tra Nord e Sud è netta e in tutte le regioni dell’Italia Settentrionale, ad eccezione delle Marche e dell’Umbria, il reddito pro capite è superiore a quello medio nazionale; nella regione meridionale più ricca, la Campania, raggiunge appena il 68%; in Calabria, Abruzzo, Molise e Basilicata il reddito pro capite è circa la metà di quello medio italiano.





Raggiunto il proprio massimo nei primi anni cinquanta del '900, le differenze cominciano progressivamente a diminuire: un recupero si osserva già a partire dalla fine di quegli anni, in cui il tasso di crescita medio annuo del Mezzogiorno è del 5,8%, mentre quello del Nord è del 4,3%.
Il divario tra le due aree si riduce sensibilmente e, nel 1973, il Pil pro capite meridionale raggiunge il 66% di quello del Nord.




Dopo il primo shock petrolifero il divario si riapre, in un processo di divergenza che si protrae fino alla metà degli anni novanta e che vede la sua fine con l'attestazone del prodotto pro capite del Sud rispetto al Nord al 56% (1995-1997).




Per completare la parte tecnica dell'articolo è necessario fare un piccolo schema riassuntivo; La presente ricerca e quelle recenti sulla crescita ineguale dell’Italia inducono a ritenere che i divari rilevanti fra regioni, in termini di prodotto pro capite:
— non esistessero prima dell’Unità;
— si siano manifestati sin dall’avvio della modernizzazione economica (più o meno fra il 1880 e la Grande Guerra);
— si siano approfonditi nel ventennio fascista;
— si siano poi ridotti considerevolmente nei due decenni fra il 1953 e il 1973;
— si siano aggravati di nuovo in seguito alla riduzione dei tassi di sviluppo dell’economia dai primi anni ’70 in poi.
Ma dopo questo mio riassunto dello studio di Vittorio Daniele e Paolo Malanima ci sono alcune domande da porsi: Perchè è accaduto questo? Chi sono stati i principali attori delle vicende politiche dal primo periodo post-unitario in poi e in che modo hanno influenzato lo sviluppo di differenze regionali talmente elevate?
Per rispondere a queste domande mi viene in aiuto il mio libro di storia, in cui ho trovato divense informazioni e testimonianze interessanti e degne di nota, che in seguito riporterò ed elaborerò.
Nel 1861 l'Italia aveva circa 22 milioni di abitanti, con un reddito pro capite pari a metà di quello inglese e ai due terzi di quello francese.
Il 70% della forza lavoro era occupato nell'agricoltura, mentre solo il 18% nell'industria (questo era indice di un sistema economico ancora sostanzialmente preindustriale).
Anche dal punto di vista sociale le condizioni di vita delle popolazioni contadine e degli ancora ristretti nuclei di classe operaia erano pessime: l'insufficiente alimentazione e le cattive condizioni igienico-sanitarie favorivano il diffondersi di malattie infettive che altrove erano già state debellate da tempo (tifo, colera, vaiolo ecc...).
L'Italia era, in somma, una periferia economica, molto in ritardo nel contesto di un'Europa lanciata nella strada dello sviluppo.
Serviva una guida forte per portare il Paese in condizione di competere con gli Stati europei più avanzati e si pensò che questa guida fu quella che si trovò dopo le prime elezioni, svoltesi nel gennaio 1861, da cui uscì una maggioranza parlamentare indirizzata verso la corrente della Destra storica, espressione dell'aristocrazia e della borghesia liberale moderata, che credeva fermamente nel libero mercato e nell'oculata amministrazione della Cosa Pubblica.
Sul piano economico, quindi, la Destra optò per una politica commerciale liberista; Nonostante si sapesse che ciò avrebbe esposto l'economia italiana alla concorrenza di sistemi produttivi più evoluti, essi, da liberali, erano convinti che l'economia nazionale si sarebbe potuta sviluppare soltanto favorendo la creazione di un mercato interno e l'apertura verso l'estero.
Quanto al primo aspetto, il governo operò abbattendo dazi e dogane interne e realizzando l'unificazione monetaria: nel 1862 la lira piemontese divenne lira italiana.
Per quel che riguarda l'apertura verso l'estero, invece, essa fu sancita dall'estensione del sistema fiscale piemontese (tra i più bassi d'Europa) a tutta la penisola.
La scelta liberoscambista favorì le esportazioni di prodotti agricoli e semilavorati (seta grezza ecc...) ma, allo stesso tempo e come ampiamente previsto, espose l'apparato industriale italiano alla concorrenza delle più competitive merci franco-inglesi, tanto che il già debole Prodotto Nazionale Lordo venne ulteriormente riducendosi: particolarmente penalizzate furono le attività industriali delle regioni meridionali, in cui l'effetto di "deindustrializzazione" fu solo parzialmente mitigato dall'espansione delle esportazioni di prodotti agricoli specializzati (olio, vino, agrumi ecc...).
L'unificazione e l'apertura ai mercati europei richiedevano lo sviluppo delle infrastrutture: la Destra promosse allo scopo ingenti investimenti pubblici, ottenendo risultati di grande rilievo, soprattutto nel settore ferroviario.
Questa politica di spesa era tuttavia in contraddizione con il Pareggio di Bilancio dello Stato, misura necessaria per risanare il pesante Debito Pubblico (nel 1861 era di circa 2 miliardi e 402 milioni di lire, pari a circa il 40% del PNL).
Di fronte al problema di conciliare investimenti per lo sviluppo e risanamento finanziario, la Destra fece ricorso a prestiti (emettendo Titoli del Debito Pubblico), alla vendita di beni del demanio pubblico (furono venduti oltre 1.500.000 ettari di proprietà statale e comunale, danneggiando prevalentemente il Meridione) e a un forte inasprimento fiscale;
A tal proposito, nel 1868, venne reintrodotta la tassa sul macinato, provvedimento che provocò un rincaro del pane che diede origine a numerose proteste lungo tutta la penisola, represse nel sangue e portatrici di pesanti "bollettini di guerra": al termine della rivolta il bilancio fu di 3788 arresti, 1099 feriti e 257 morti. 
L'obiettivo del Pareggio di Bilancio, perseguito ferocemente dal Ministro delle Finanze Quintino Sella, fu raggiunto nel 1876, a prezzo però di un peggioramento della condizione economica dei ceti popolari. Infatti, il prelievo fiscale fu aumentato soprattutto agendo sulle imposte indirette, che colpiscono in misura maggiore chi consuma in gran parte o totalmente il proprio reddito: i ceti meno abbienti, appunto, la cui propensione al risparmio è molto bassa, se non nulla.
Il sistema fiscale sottopose inoltre i cittadini meridionali a una tassazione molto più severa di quella borbonica.
Lo stato non seppe mostrarsi alle popolazioni del Sud come il garante della giustizia; Sicchè la gran massa della popolazione, anzichè trasferire la propria fiducia alle istituzioni liberali, la conservò e la rafforzò intorno a poteri locali come le famiglie proletarie e le reti di parentela, poteri da cui derivò in seguito il rafforzamento delle già esistenti organizzazioni criminose, la cui influenza non solo non fu debellata dallo Stato Unitario, ma fu addirittura rafforzata tramite lo stringersi di legami con esponenti del potere politico a livello nazionale e locale.
In seguito, nel 1876 la Destra storica dovette cedere le redini al governo della Sinistra guidato da Agostino de Pretis, che restò in carica fino al 1887.
Nonostante numerose inchieste parlamentari evidenziassero l'arretratezza della società italiana e le difficili condizioni di vita del mondo contadino, la Sinistra non varò nessuna politca di legislazione sociale, continuando a preferire metodi di repressione violenta di fronte a proteste e scioperi.
Il governo abbandonò, però, il libero scambio e adottò, a partire dal 1877, una politica protezionista. Questa scelta va inquadrata nel contesto di una fase di depressione economica internazionale che durò dal 1873 al 1896 e che vide una grave recessione in campo agricolo, registrata per via della diminuzione del prezzo dei cereali dovuta all'afflusso di grani a basso prezzo dalle Americhe.
La crisi agraria colpì con forza l'economia italiana, ancora piuttosto arretrata e quindi prevalentemente rurale (tra il 1880 e il 1887 le importazioni di cereali passarono da 1,5 a 10 milioni di quintali, il prezzo del grano interno diminuì di un terzo e la produzione nazionale del 20%).
Di fronte a questa crisi nacquero il Partito degli Agrari e il Partito degli Industriali, che chiedevano al governo delle più alte tariffe doganali, che tutti i paesi europei (tranne la Gran Bretagna) avevano adottato per fronteggiare la crisi. Questi due schieramenti attribuivano al libero scambio e ai trattati commerciali del 1862-63 la responsabilità della stagnazione economica italiana e ritenevano che il ritardo economico si sarebbe potuto colmare solo proteggendo l'industria e l'agricoltura nazionali dalla concorrenza straniera.
Le loro richieste furono esaudite nel 1887, anno in cui nonostante le critiche dei liberisti, (che sostenevano che le barriere doganali avrebbero favorito le imprese più arretrate e improduttve) vi fu l'imposizione di un'alta tariffa doganale sul grano e sui vari prodotti industriali (tessili, agroalimentari, chimici, siderurgici ecc...).
Tra i principali effetti negativi del protezionismo vengono ricordati l'aumento del prezzo del pane e della pasta e i danni subiti dalle colture d'esportazione meridionale, a causa della guerra commerciale apertasi con la Francia nel 1888.
Senz'altro positiva per l'agricoltura fu invece la sopravvivenza dei latifondi meridionali grazie alla protezione doganale, mentre, per quel che riguarda l'industria, la tariffa del 1887 consentì ai nostri imprenditori di operare sul mercato interno in condizione di vantaggio rispetto alla concorrenza straniera.
In quegli anni si iniziò, quindi, la produzione su larga scala dell'acciaio (si passò dalle 3600 tonnellate del 1881 alle 182.000 tonnellate del 1889), si ebbe la crescita del settore tessile, di quello siderurgico, dell'insutria idroelettrica (si passò dai 100 milioni di kwh del 1900 ai 4000 milioni di kwh del 1914) e anche il completamento della rete stradale e ferroviaria, che però risultava essere molto più presente al Nord che al Sud (solo nel Settentrione lo sviluppo della rete ferroviaria fu articolato e ramificato a livello regionale: nel Centro-Nord furono costruiti 5744 km di ferrovie, contro i 3838 km del Mezzogiorno).




Secondo diversi studiosi, come Francesco Saverio Nitti, le scelte politiche della classe dirigente avrebbero deliberatamente privilegiato il Nord, drenando risorse dal Meridione e investendo nello sviluppo industriale del Settentrione.
Nitti espose questa sua opinione nell'opera "Nord e Sud" del 1900, in cui scrisse: << Dalle mie indagini, risulta che proporzionalmente alla sua ricchezza, il Sud paga per imposte di ogni natura assai più del Nord; e viceversa lo Stato spende molto meno.
L'ordinamento del nostro sistema tributario è tale che una provincia povera come Potenza paga più di Udine; e Salerno paga più di Como, mirabile per industrie e traffici!
Le grandi spese si sono concentrate nel Nord; Le spese navali si fanno quasi interamente in Liguria. [...] La politica finanziaria dello Stato ha trasportato una massa ingente di ricchezza , forse qualche miliardo, dal Sud al Nord.
La politica doganale, soprattutto dopo il 1878, ha acuito il contrasto di interessi.
Per molti anni due terzi degli italiani hanno lavorato a beneficio della Liguria, della Lombardia e del Piemonte; Così, l'Italia settentrionale e l'Italia meridionale sono oggi a una distanzza maggiore che nel 1860. >>
Questa tesi venne ripresa più volte sia da interpreti di scuola liberale sia dalla storiografia marxista. Come scrive Rosario Villari nel suo "L'interdipendenza fra Nord e Sud" del 1977, infatti: << Nei primi anni dopo l'unificazione, lo Stato ha operato in modo da consentire l'accumulazione di capitali e condizione favorevoli nelle zone che hanno poi costituito il cosiddetto "tringolo industriale".
Una parte dei mezzi necessari per questa operazione è stata sottratta alle regioni meridionali attraverso una linea politica generale adatta o direttamente favorevole ai bisogni e alle condizioni del Nord.
L'estensione del sistema fiscale piemontese a tutto il Regno ha determinato uno squilibrio nel rapporto contributivo tra le varie regioni; anche la vendita dei beni del Demanio Pubblico (NdM, come scrissi in precedenza) ha sottratto una quota consistente del risparmio meridionale (circa 500 milioni). [...] E' un'idea diffusa che la prima fase della vita post-unitaria sia stata caratterizzata da una forte pressione fiscale sulle campagne, attraverso la quale sono stati acquisiti i mezzi per creare le attrezzature materiali del nuovo organismo politico nazionale. >>
L'interpretazione marxista fu, invece, influenzata dall'analisi fatta da Antonio Gramsci nei "Quaderni del Carcere" (1929-35), dove il distorto sviluppo economico italiano veniva imputato alla mancata "rivoluzione agraria" (cioè la mancata rottura del latifondo agrario meridionale) da parte della classe dirigente liberale post-unitaria.
Si sarebbe realizzata così una saldatura di interessi fra borghesia industriale del Nord e ceto agrario meridionale: la prima interessata a disporre di risorse adeguate per l'industrializzazione (NdM, "capitale umano") e di un mercato di sbocco per le proprie merci; il secondo interessato al riparo della tariffa protezionista.
Con gli anni '70, però, si sono aperte nuove prospettive di ricerca, a partire dagli studi di Luciano Cafagna (raccolti in "Dualismo e sviluppo nella storia d'Italia" del 1989), che ha sostenuto, smentendo di fatto Gramsci, che Nord e Sud si sono svilluppati in forma sì dualistica, ma indipendente: << [...] Il sistema delle imprese settentrionali non trovava nell'asfittico mercato meridionale uno sbocco per i suoi manufatti, nè nel Nord si registrava un'eccedenza finanziaria capace di innescare il fenomeno tipicamente imperialistico dell'esportazione di capitali (insufficienti a sostenere la stessa industrializzazione del cosiddetto "triangolo", dove anzi affluiva abbondante capitale straniero). Viceversa, il Sud non riusciva a piazzare sui mercati settentrionali nè le materie prime nè i prodotti dell'agricoltura mediterranea; il vino, gli agrumi e altre derrate agricole pregiate determinavano un prevalente flusso di esportazione verso alcuni Paesi europei e le Americhe. >>
In conclusione, quindi, non è chiaro se vi sia stato o meno un rapporto "naturale" per cui il mancato sviluppo del Sud sia dovuto a una maggiore crescita del Nord; Esso, secondo diversi economisti e storici, come i già citati Nitti e Villari, sarebbe invece dovuto a "forzature politiche" portate avanti da classi dirigenti che, per qualche motivo, che non ho ritenuto necessario indagare in questo articolo, hanno sempre preferito sviluppare e portare innovazione in soltanto una delle due parti del Paese, lasciando l'altra (il Sud, ovviamente) in condizioni di pesante arretratezza economica; condizioni che hanno avuto effetti negativi in diversi aspetti della vita sociale e politica della Macroregione e che, purtroppo, si protraggono ancora oggi.